Intervista a Luca Ciammarughi
Abbiamo approfittato dell’organizzazione della serata al Ristorante solidale Ruben con Luca Ciammarughi per fargli qualche domanda: quella che segue è l’intervista che ci ha rilasciato. Speriamo l’apprezziate quanto abbiamo fatto noi.
Come sei entrato in contatto con l’Associazione per MITO Onlus e il progetto ClassicAperta?
L’anno scorso, nel pubblico di un mio concerto al Mantova Chamber Music Festival, era presente Anna Gastel, presidente di MiTo: ha apprezzato le mie interpretazioni di Rameau e, a distanza di mesi, si è ricordata di me.
Mi ha fatto molto piacere: non è così usuale che direttori artistici e presidenti di istituzioni importanti ascoltino e scelgano in prima persona, indipendentemente da altri fattori.
Qual è il tuo rapporto con la città?
Sono nato nella Milano da bere, anni ’80. Un’epoca di splendore: ricordo che alle elementari avevamo mille insegnanti e facevamo materie fantasmagoriche, come psicomotricità o TVCC (non ricordo esattamente cosa fosse, ma guardavamo un sacco di film). C’era anche qualcosa di triste in quell’opulenza, soprattutto col senno di poi. Negli anni novanta la città era piuttosto grigia, o forse ero io a essere troppo impegnato nei miei studi letterari e musicali per viverla a fondo. Per me Milano equivaleva al Conservatorio, ai concerti, ai negozi di dischi e di libri: tutto ciò mi bastava. Ma la Scala, ad esempio, faceva molti meno spettacoli di oggi. Solo nel nuovo millennio ho iniziato ad amare veramente la città e a viverla nelle sue molteplici sfaccettature: in questi ultimi anni, in particolare, c’è stata un’indubbia rinascita, anche in diversi quartieri non centrali. Milano è diventata più generosa, meno arcigna. Oggi dubito che potrei vivere in un’altra città italiana.
Sappiamo che sei arrivato alla musica classica dopo aver ascoltato per anni i Beatles e la musica pop. Com’è il tuo rapporto con gli altri generi musicali oggi?
Mi interessa tutta la musica. Sono convinto che le specializzazioni siano dettate non solo da predilezioni estetiche, ma anche da ragioni professionali: approfondire tutto allo stesso livello è impossibile, quindi ci si fissa un po’ nel proprio ambito. Se avessi una giornata di 48 ore, mi interesserei molto di più al panorama extra-classico. Il problema, però, è che la musica è oggi più che in passato sottoposta all’omologazione dettate dal marketing. In ambito classico c’è ancora una certa possibilità di auto-determinazione: i veri musicofili diffidano dell’artista che è sempre in copertina e di tutto ciò che ti viene rifilato come imperdibile mainstream. Certamente anche nel pop, nel rock e in altri generi esiste una scena indipendente, ma sondarla richiederebbe giornate intere. Secondo me qualcosa di nuovo dovrà per forza nascere, ma non sappiamo ancora precisamente cosa. Nel frattempo, le pause extra-classiche che mi prendo sono legate al milanese Plastic: in genere mal sopporto le discoteche, ma sono affezionato alla teatralità queer di quell’ambiente e alle sue playlist, mai banali.
Ci hai già anticipato qualcosa di quello che possiamo aspettarci dalla serata di sabato. Cosa ti aspetti tu da una serata come questa?
Il progetto è abbastanza sperimentale: è la prima volta che faccio una serata dedicata alla sinestesia musica-letteratura, anche se sono abituato a parlare al pubblico durante i miei concerti. Non mi spaventa l’idea di un pubblico composito, fatto anche di “profani”: negli anni, ho imparato che gli specialisti non sempre ascoltano con la freschezza di chi scopre qualcosa per la prima volta. La bellezza è contagiosa, ovviamente se l’interprete riesce a trasmetterla: la preparazione è importante, ma non basta; se una sera non sei ispirato, rischi di annoiare. Perciò, a mio avviso, la professionalità di un musicista classico, oggi, non sta nell’essere perfetto, ma nel cercare di mantenere viva la fiamma della passione, in sé e quindi negli altri. La routine è un insulto ai grandi compositori eseguiti, che prima di divenire Monumenti erano uomini vivi.
Cosa ti ha guidato nella scelta di questi brani? C’è qualche motivo particolare per cui ne hai scelto uno?
Il programma è a tema letterario, ma c’è una certa libertà. Non amo i percorsi troppo rigidi. Fatico sempre a creare un programma, perché non so cosa avrò voglia di suonare in quel preciso istante. Questa volta, avendo campo libero, ho inserito una serie di brani che rappresentano quasi delle proustiane “madeleines”, ovvero che generano in me ricordi particolarmente intensi, legati anche a un libro o in qualche caso a un film. Alcuni brani li suono per la prima volta e li ho studiati ad hoc, com’è il caso dell’Impromptu op. 90 n. 4, che rimanda a una memorabile scena del film Ritratto di signora (tratto dal romanzo di Henry James), quando Madame Merle sintetizza l’irruzione irrimediabile della vita nella frase «ci sono momenti in cui nemmeno Schubert ha più nulla da dirci». Meravigliosa trovo poi «l’irruzione di un valzer di Chopin» alla fine de L’amant di Marguerite Duras e l’apertura di un capitolo del Ritratto di Dorian Gray, di Oscar Wilde, con un personaggio che suona le Waldszenen di Schumann, composizione che amo come poche.
Tu unisci l’attività concertistica con quella di divulgatore e critico: è qualcosa che ti viene spontaneo o ti crea problemi?
Vivo la musica in maniera felicemente totalizzante, ma non posso negare che questa molteplicità di attività mi crei grossi problemi: il tempo purtroppo non sempre basta per fare tutto come vorrei. Il pianoforte è impietoso: non è vero che basta studiare poco e bene, anche la quantità conta. Il mio insegnante diceva a noi allievi: “Se Benedetti Michelangeli studiava 10 ore, voi quanto dovreste studiare?”. Era una provocazione, perché poi lui stesso consigliava di non superare le quattro o cinque ore, ma c’era del vero. Bisogna però anche tenere conto della legge della domanda e dell’offerta: tantissimi studenti sognano di fare i solisti e si impegnano per vincere concorsi, sperando poi di divenire star. Anche a me sarebbe piaciuto, ma ho avuto fin da subito un atteggiamento molto realistico: siccome pochissimi miei coetanei scrivevano di musica, ho iniziato fin da giovanissimo la mia attività di “musicografo”, affiancando poi dai ventisei anni quella di radiofonico. Ma non ho mai smesso di suonare e far concerti, con un’attività più o meno intensa a seconda degli altri carichi di lavoro: se non ho tempo di prepararmi come voglio, non programmo concerti, perché non voglio proporre qualcosa di raffazzonato. Di certo, però, non potrei mai smettere di suonare. Anche comporre mi attira molto. Per il resto, mi piace scrivere di musica, ma fatico sempre più a riconoscermi nel ruolo di “critico” concepito come “giudice”. Come scrittore di cose musicali, ciò che mi interessa è generare passione e discussione, magari anche aspra, non “pilotare” il gusto altrui. In questi giorni sto leggendo l’autobiografia scritta a 25 anni da Rudolf Nureyev, il quale dice qualcosa di molto vero quando afferma che può essere molto scoraggiante per un artista «che ha lavorato per mesi vedersi liquidato con poche parole frivole» da parte di un giornalista. L’arte, quando è fatta con onestà, richiede rispetto.
Un tuo sogno?
Vivere di musica raggiungendo una stabilità che mi permetta di donare agli altri le mie conoscenze: sarebbe bello, ad esempio, che a Milano nascesse un luogo in cui alcuni di noi musicisti si impegnassero a fare lezione, anche gratuitamente, a chi non ha una famiglia in grado di pagargli gli studi musicali. Talento e conto in banca sono cose diverse: la musica e l’arte in generale non dovrebbero essere esclusiva dei “figli di papà”.